In attesa del 5° rapporto dell’IPCC business as usual

Non c’è pace. Neppure sul clima. Prima di essere reso ufficiale, il V Rapporto del Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC, fa parlare ancora di sé. E’ successo ben due volte in queste settimane precedenti la presentazione prevista per il 27 settembre e sale ancora di più la febbre con fughe di dati e speculazioni. Tanto che l’organismo delle Nazioni Unite – insignito del premio Nobel per la pace 2007 assieme ad Al Gore – ha annunciato con tanto di conferenza stampa, la sua nuova policy.

Qualsiasi bozza anche quella finale è suscettibile di ulteriori modifiche. E’ valido solo il documento ufficiale. Suona come passo obbligato per scongiurare critiche dal fronte ‘negazionista’ (ma non solo) e l’accusa di lasciar deliberatamente trapelare presunti dati (magari poi smentiti nel documento finale) che vengono opportunisticamente utilizzati per disorientare l’opinione pubblica causando un caos informativo.

Ma il problema non è solo sapere quanto sarà l’innalzamento delle temperature del pianeta (stimato tra 3,6°C e 5°C) e quello del livello dei mari (tra 29 o 82 cm), bensì quando questi scenari che oscillano tra lo spaventoso e il terrificante, si verificheranno. Entro metà del secolo o nel prossimo? Per ora, l’unica quasi certezza scientifica è che il riscaldamento globale, verificatosi a partire dalla fine degli anni ’50, sia principalmente causato dall’attività umana. I ricercatori dell’ICPP danno all’origine antropogenica del surriscaldamento una probabilità del 95%. Nel 1995 era il 50%. Mentre rimane incerta la distribuzione geografica dei cambiamenti climatici e dei suoi impatti.  Questa indeterminatezza sugli effetti regione per regione nei prossimi decenni, che è motivo di ulteriore allarme da parte degli scienziati in quanto aumenta gli ostacoli e i costi di prevenzione, diventa un pericoloso alibi per la sostanziale inazione dei governanti. Anche per defilarsi dai costosi programmi di incentivi alle rinnovabili: dalla Spagna alla recentissima defezione della Repubblica Ceca. Non giova neppure la scarsa efficacia dimostrata da strumenti come lo scambio delle quote di carbonio in ambito EU, noto come ETS. A 3-5 euro per tonnellata di CO2, l’incentivo ad adottare modelli di generazione virtuosi, non esiste proprio. Per giunta un film Carbon Crooks trasmesso alla televisione olandese scoperchia lo scandalo delle frodi legate al mercato dei “permessi di emissione” il quale vittima  di infiltrazioni di organizzazioni criminali internazionali. Il costo della latitanza negli interventi di contrasto al cambiamento climatico è pesantissimo: 100 miliardi all’anno fino al 2020 e  250 miliardi all’anno a partire dal 2050 per la sola UE.

Incapaci di ridurre le emissioni di CO2 in modo significativo e omogeneo per tempo, si pensa di ripiegare sul piano B: raffreddare l’atmosfera con la manipolazione del clima. Per esempio, spargendo in cielo anidride solforosa capace di creare una sottile coltre capace di deviare i raggi solari. Ieri fantascienza oggi scienza, la geoingegneria è oggetto di studio di autorevoli istituti come la tedesca Karlsruhe Institute of Technology e l’Università di Heidelberg e negli USA la National Academy of Sciences che opera sostenuta dalla Cia, dalla NASA e dall’agenzia atmosferica federale. L’umanità “padrona delle nuvole” è un’idea suggestiva seppur a costi esorbitanti e chissà con quali conseguenze a lungo termine sull’atmosfera; senza contare le implicazioni di natura geopolitica.

La Cina che vanta sia il primato della nazione più inquinante sia di quella che investe di più in tecnologie pulite, e per giunta ha già al suo attivo alcune sperimentazioni climatiche, ha finalmente presentato la settimana scorsa un pacchetto di misure anti-inquinamento. Mista l’accoglienza a queste misure le quali riconoscono ufficialmente il problema ma non sono poi così incisive. Ad esempio, sul fronte trasporti, l’impennata di autovetture private fa sì che a Pechino, la città più trafficata della Cina, i gas di scarico abbiano superato le emissioni industriali e domestiche. Il piano impone di fissare il limite massimo di concentrazione di PM 2,5 (le microparticelle più letali di altre perché si depositano nei polmoni e provocano danni a lungo termine) a 60 mg/m3 . E’ un limite 2,5 volte più elevato del livello raccomandato dall’OMS ma comunque segna un passo in avanti. Per anni, le autorità non rendevano pubblici i rilevamenti di PM 2,5, ma la pressione dell’opinione pubblica si è fatta pesante. Infatti, da tempo gli abitanti della capitale avevano preso l’abitudine di informarsi sulla qualità dell’aria di Pechino, seguendo l’account Twitter dell’ambasciata USA che riportava i dati dei rilevamenti della centralina collocata sul tetto della sede diplomatica. Così come la determinazione del mix elettrico nel 2017 indica a 65% l’apporto del carbone (era 67% nel 2012) e non fissa neppure dei vincoli stringenti di quanto ciascuna provincia dovrebbe ridurre il suo consumo di carbone.

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