Il Termoelettrico in Italia sta attraversando un momento difficile, stretto tra due fattori, la perdurante crisi economica e lo sviluppo massiccio ed in buona parte imprevedibile delle rinnovabili elettriche. Come non bastasse con una comunicazione sempre più incline a fornire al pubblico disarmanti semplificazioni in campo tecnico/scientifico il settore termoelettrico viene spesso dipinto di come ‘il cattivo’ attribuendogli colpe che non ha.
Per riuscire ad analizzare in maniera laica la questione bisogna innanzitutto vedere come si è arrivati negli anni alla situazione attuale.
Nel 1990 c’è stato l’abbandono definitivo del nucleare con la chiusura definitiva delle centrali di Trino e Caorso e l’arresto dei lavori di costruzione della centrale di Montalto di Castro (quasi 2 GWe), negli anni a seguire la crescita economica del Paese ed il fabbisogno sempre crescente di energia elettrica si scontravano con un deficit strutturale di potenza, che in quegli anni era percepito come molto concreto.
Il primo spartiacque si ebbe nel 1999 con il decreto Bersani con cui si recepirono le norme europee (direttiva europea n.92 del 1996) che sancivano la liberalizzazione del mercato elettrico. Per quanto riguarda l’attività di produzione, vista la costante crescita del fabbisogno al ritmo di quasi il 3% annuo, molti operatori si lanciarono nell’impresa costruendo principalmente centrali a gas metano, economiche e flessibili e potenzialmente in grado di ripagare i propri costi nel giro di pochi anni. Business plan basati oltre che sulla crescita storica dei consumi sulle previsioni di crescita a lungo termine di autorevoli operatori istituzionali nazionali ed internazionali.
Come ben evidenziato dal grafico sottostante, a seguito della liberalizzazione del mercato si nota a partire dal 2003 una netta crescita del termoelettrico installato, nel 2006 ben 19,5 GW di impianti erano già realizzati od in cantiere e complessivamente tra il 2002 ed il 2013 si sono installati 21,7 GW di nuovi impianti termoelettrici, principalmente impianti a gas a ciclo combinato.
Il secondo spartiacque si può individuare nel 2007-2008, uno spartiacque costituito da due fattori: il primo fattore è l’inizio della crisi economica che tuttora perdura. In Italia la crisi ha portato ad un forte rallentamento delle nuove installazioni che, a causa dell’inerzia dei processi autorizzativi che non rendono facili le inversioni di marcia, sembra essersi arrestato solo nel 2012-2013. Il secondo importante fattore sono le politiche di incentivazione per gli impianti a fonti rinnovabili che nel giro di 5-6 anni hanno portato all’installazione di ulteriori 25 GW di impianti eolici e fotovoltaici (linea verde nel grafico) e di 4,4 GW di impianti termoelettrici a bioenergie (biomassa, biogas, bioliquidi). Una politica di incentivazione in alcuni casi estremamente generosa che ad esempio al fotovoltaico ha garantito incentivi quasi doppi rispetto a quelli concessi nello stesso periodo in Germania l’unico altro paese europeo che ha creduto in un forte sviluppo della fonte solare. Molto meno generosa invece l’incentivazione all’eolico, basti pensare che nel 2012 l’eolico ha prodotto 12,5 TWh di energia incentivata contro gli oltre 18 TWh del fotovoltaico ma di incentivi l’eolico ha percepito circa 520 milioni di euro (fabbisogno economico 2012 da relazione attività GSE, circa 1 miliardo di euro di onere annuo potenziale secondo contatore FER elettriche) contro i 6,3 miliardi del fotovoltaico, per un costo unitario del Conto Energia nel 2012 di 333 €/MWh.
Secondo alcuni i produttori da termoelettrico hanno investito troppo e troppo in fretta, hanno costruito molti impianti sebbene lo sviluppo tumultuoso delle rinnovabili fosse già ampiamente prevedibile in quanto il Decreto Bersani, le direttive europee (ed in qualche misura gli accordi di Kyoto del 1997) già preparavano la ‘corsia preferenziale’ per gli impianti a fonti rinnovabili e gli impianti di cogenerazione, introducendo la priorità di dispacciamento per l’energia da questi prodotta. Ma il fatto che solo Italia e Germania (e la Spagna con alterne fortune) in Europa siano state teatro di un vero e proprio boom delle rinnovabili forse indica che la cosa non era poi così scontata da prevedere.
Tanto per fare un esempio chi nel 2007 era propenso ad investire in un impianto di generazione tradizionale si trovava di fronte delle previsioni di aumento della domanda elettrica piuttosto allettanti:
Allo stesso modo fino ad una manciata di anni fa il potenziale produttore da termoelettrico che si fosse chiesto quanto sarebbe potuta crescere la potenza fotovoltaica avrebbe trovato nella legislazione numeri per lui piuttosto confortanti, ad esempio le norme riguardanti il terzo Conto Energia fotovoltaico (stiamo parlando di un decreto dell’agosto 2010) prevedevano per il solare un tetto di installazioni di 8000 MW al 2020, si sarebbero inoltre dovuti installare solo 3000 MW di impianti FV nei tre anni tra il 2011 ed il 2013, in linea con quanto previsto dal Piano d’Azione Nazionale per le energie rinnovabili pubblicato dal Ministero dello Sviluppo Economico nel giugno del 2010.
Quindi dire che l’impetuoso sviluppo del fotovoltaico avvenuto negli ultimi anni (oggi abbiamo quasi 18 GW di impianti FV in esercizio) sarebbe stato prevedibile già nei primi anni del 2000 non sembra un’affermazione facilmente sostenibile. Era prevedibile per i produttori una crisi economica così duratura? Era prevedibile uno sviluppo così massiccio delle FER quando neppure i soggetti istituzionali italiani ed europei l’avevano ipotizzato? Se poi la crisi fosse stata solo momentanea, se oggi si consumassero davvero 400 TWh l’anno di energia ma i produttori non avessero investito a sufficienza l’accusa sarebbe opposta?
Oggi come oggi dal punto di vista del mercato gli impianti termoelettrici sono in una posizione molto difficile, con la sua attuale impostazione il mercato elettrico non riesce a discriminare tra gli impianti che godono di incentivi e gli altri impianti. Il mercato si limita a vedere, ora per ora, quali sono i pacchetti di energia offerti a prezzo più basso (e successivamente applica la priorità di dispacciamento secondo i criteri qui elencati). Gli impianti fotovoltaici possono invece operare con costi marginali pressocchè nulli (il sole è gratuito ma bisogna pagare i costi di manutenzione) ed i costi d’impianto sono ampiamente coperti dagli incentivi sull’energia prodotta, quindi possono permettersi di vendere sul mercato l’energia prodotta ‘al meglio’, proponendola a prezzo nullo e lasciando che siano gli impianti tradizionali a determinare il prezzo di equilibrio (tra domanda ed offerta) dell’energia energia elettrica in quella zona ed a quell’ora.
Oggi ci troviamo in Italia con una potenza efficiente lorda complessiva di circa 125 GW (di cui 77 GW circa di termoelettrico) ed un picco di potenza richiesta che a luglio 2013 ha raggiunto a malapena i 53,9 GW. Ma questo vuol dire che si possono mandare al macero 70 GW di impianti di generazione elettrica? La questione non è certo così semplice:
Bisogna innanzitutto considerare il fattore di disponibilità degli impianti. Il fattore di disponibilità indica per quante ore un impianto è effettivamente in grado di produrre (ad esempio esclusi i fermi legati alla manutenzione) in rapporto alle ore in anno (8760). Per gli impianti termoelettrici il fattore medio è intorno al 71%, per l’idroelettrico introno al 60%, per eolico e fotovoltaico intorno al 25%. Per idroelettrico, fotovoltaico ed eolico bisogna poi considerare che la produzione è fortemente legata alla stagionalità e che quindi la produzione invernale è differente da quella estiva (e che FV ed eolico si compensano solo parzialmente), per l’idroelettrico inoltre si rilevano di anno in anno forti variazioni della producibilità, in base alla piovosità. Applicando questi fattori la potenza elettrica effettivamente disponibile si riduce da 125 GW a 75-85 GW secondo i criteri adottati per il calcolo.
Bisogna considerare poi la localizzazione degli impianti, la rete elettrica presenta dei ‘colli di bottiglia’ che in molti tratti non consentono un dispacciamento efficiente dell’energia elettrica prodotta tra le varie zone d’Italia. Cosa che ha pesanti effetti sul mercato e si riflette in un aumento dei costi. L’importanza dell’interconnessione tra varie zone è resa molto evidente da quanto sta accadendo in questi giorni in Sicilia dove con la messa in manutenzione dal 1°ottobre del cavo che collega la Sicilia con il continente il prezzo dell’energia elettrica naviga intorno ai 150 €/MWh.
Bisogna considerare il margine di adeguatezza richiesto dalla rete che richiede appunto adeguati margini di riserva di potenza disponibile, questa riserva per l’Italia si può indicare pari al 23% del carico di punta. Considerando questo fattore ed i dati di previsione che erano disponibili nel 2007, anche se i produttori avessero avuto modo di prevedere l’esplosione delle FER i loro investimenti sarebbero stati pienamente giustificati come si evince dalla tabella sotto riportata.
Non sembrerebbe quindi equo che i produttori da termoelettrico debbano essere gli unici a rimetterci con la situazione che si è venuta a creare per il convergere di una grave recessione e lo scontrarsi di due cicli d’investimento in impianti di generazione che hanno portato più di 20 GW di potenza installata ciascuno, due cicli ambedue ‘diretti’ anche se con modalità differenti dal legislatore. Il termoelettrico è stato però dimenticato inseguendo la passione molto più politically correct per le fonti rinnovabili, un termoelettrico quindi sedotto ed abbandonato… anche se forse sarebbe più calzante parlare di un termoelettrico ‘cornuto e mazziato’. [gb]